Smart Working, info e dettagli

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In questo periodo il mondo si ferma e a tanti tocca reinvetarsi. Ecco perché tante sono state le aziende che hanno scelto lo Smart Working, il ricorso massiccio al lavoro agile per far fronte all’emergenza coronavirus può rivelarsi una grande opportunità per il mercato del lavoro.

Sicuramente è importante per quanto riguarda la sicurezza, perché permette alle persone di lavorare da casa e di non stare a contatto con tanti altri individui che magari per arrivare in ufficio hanno preso mezzi pubblici. Inoltre fa bene all’economia, perché permette alle aziende di non perdere lavoro in questo periodo e di continuare a far girare l’economia.

Le aziende e i lavoratori mettono al centro del rapporto tra le parti la fiducia, come leva per ottenere più produttività ma anche più flessibilità nella gestione del tempo e dello spazio di lavoro.

Tuttavia, il modo assolutamente improvvisato con cui il sistema si è avvicinato a questo strumento nasconde una forte insidia. Le aziende e le persone potrebbero non essere pronte a gestire correttamente lo smart working. Uno dei temi dove questa impreparazione potrebbe emergere in modo più evidente è la gestione dei controlli sul lavoratore.

Ciascun datore di lavoro ha il diritto/dovere di svolgere controlli sul corretto svolgimento della prestazione dei propri dipendenti, senza distinzioni sulle modalità di esecuzione, a patto che siano rispettati i limiti. Limiti che sono fissati dagli articoli 2, 3 e 4 dello Statuto dei lavoratori.

In base al Decreto 11 marzo, le imprese devono fare il massimo utilizzo dello smart working, quindi per i Consulenti del Lavoro diventa un vero e proprio diritto del dipendente.

Lo smart working è diventata una primaria alternativa praticabile durante l’emergenza Coronavirus, con il massimo utilizzo da parte di imprese, è questa una delle indicazioni del Dpcm in vigore fino al 25 marzo.

La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con circolare 7/2020, sottolinea le differenze del nuovo decreto rispetto a quanto indicato nel precedente Dpcm 9 marzo, che si limitava a suggerire il lavoro agile come possibile soluzione all’esigenza di limitare la mobilità delle persone, proprio per cercare di arrestare il contagio.

La nuova legge:

La ”vecchia” norma (Dpcm 9 marzo) lo prevedeva dunque come modalità che poteva «essere applicata» dai datori di lavoro anche in assenza di accordi individuali.

La “nuova” (Dpcm 11 marzo) dispone invece che: «sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza».

Sottolinea:

«verificare la potenziale compatibilità delle lavorazioni all’interno dei propri processi produttivi e di servizio con le peculiarità dello smart working, che consente di dare piena attuazione alla direttiva generale di rimanere nelle proprie case, anche per svolgere la prestazione lavorativa».

Oltre alla disposizione sopra richiamata, c’è anche il comma 10 dell’articolo 1 che prevede:

«per tutte le attività non sospese» il «massimo utilizzo del lavoro agile».

Non sono previste sanzioni per i datori di lavoro che non applicano lo smart working, però c’è una «decisa ed evidente presa di posizione del governo in tale direzione».

Viene anche citato l’articolo 2087 del codice civile, che «impegna il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, potendo bene includere fra queste l’adozione, fortemente semplificata, del lavoro agile».

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