Epatite dopo trasfusione, il caso di malasanità
Recentemente mi è stato posto un quesito simile, da sottoporre ad un patrocinatore stragiudiziale, in merito al risarcimento danni da malasanità.
Per cui riporto questo caso avvenuto in seguito ad una trasfusione di sangue infetto, ad un uomo che contrae l’epatite C e che si manifesta in tutta la sua gravità solo a distanza di molti anni dal fatto, costringendo il malcapitato ad un trapianto di fegato.
Il danneggiato agisce in giudizio contro il Ministero della Salute al fine di ottenere il ristoro per i danni patiti. I giudici di merito gli riconoscono il risarcimento, ma liquidano il danno solo a far data dal momento in cui la malattia si è manifesta (nel 2009) e non dal momento della contrazione dell’infezione (nel 1969).
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 17 febbraio 2023 n. 5119 (testo in calce), conferma la propria giurisprudenza in materia di danni lungolatenti, ossia danni che si manifestano a distanza di tempo dal fatto illecito. Il diritto al risarcimento del danno biologico sorge solo nel momento in cui si manifestano i sintomi e non dalla contrazione dell’infezione.
Infatti, il danno biologico non consiste nella mera lesione dell’integrità psicofisica ma nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona. In difetto di conseguenze, non v’è danno risarcibile, diversamente opinando si configura un danno in re ipsa, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica tra evento ed effetti dannosi. In altre parole:
«finché l’agente patogeno innescato dal fatto illecito non si manifesta, non si realizza alcun danno risarcibile, in quanto solo il danno conseguenza costituisce il parametro di determinazione del danno ingiusto».
La vicenda avvenuta nel 1969, quando un uomo a seguito di una trasfusione di sangue contraeva – ovviamente senza saperlo – l’epatite C. La malattia veniva scoperta solo nel 2001 e si manifestava in tutta la sua gravità nel 2009, tanto da costringere il malcapitato ad un trapianto di fegato.
L’uomo agiva in giudizio contro il Ministero della Salute e contro l’azienda ospedaliera, al fine di ottenere il risarcimento del danno patito a causa della trasfusione. Il Tribunale rigettava la domanda attorea sull’assunto che, nel 1969, non era ancora nota l’epatite di tipo C e quindi, non poteva configurarsi l’obbligo in capo all’amministrazione sanitaria di prevenirne la diffusione.
La Corte d’Appello, invece, statuiva che la convenuta era gravata dall’obbligo di controllare la provenienza e l’utilizzabilità del sangue usato per le trasfusioni. Pertanto, veniva riconosciuto alla vittima un danno biologico su invalidità permanente del 40% a partire dal 2009, anno in cui la malattia aveva cessato di essere latente; inoltre, il danno morale era liquidato nella misura del 30% del danno biologico.
Il Ministero della Salute viene condannato al pagamento di circa 334 mila euro e ricorre in Cassazione.
Nel risarcimento nel caso di danni lungolatenti, il danneggiato lamenta che la sentenza gravata abbia determinato l’ammontare del danno biologico con riguardo al tempo in cui la malattia si è palesata (2009) e non già nel momento in cui essa è stata contratta (1969). È di tutta evidenza che, la differenza sul quantum, a seconda della decorrenza, sia notevole.