La situazione vaccini nel mondo

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Il primo dato certo che se ne trae, sta diventando una costante. Il Covid-19 ha aumentato il divario, fra le classi sociali, fra il ricco e il povero, fra chi ha avuto la possibilità di acculturarsi e chi no. Dal punto di vista dei vaccini, non sappiamo quando questo finirà – se mai ci sarà una fine – proprio perché dal punto di vista delle forniture e delle modalità di somministrazione, troppe sono ancora le aree geografiche scarsamente attrezzate.

Le prime approvazioni ai vaccini anti-Covid, Sputnik V in Russia, Pfizer-BioNTech in Regno Unito, sono arrivate ai primi di dicembre scorso. Da allora sono passati 6 mesi e in quest’ultima settimana si è superata la quota simbolica di un miliardo e mezzo di dosi somministrate, in 210 Paesi mentre ancora undici non sono riusciti ad avviare la campagna vaccinale.

A martedì 18, precisamente, i contatori mondiali che sommano le cifre comunicate giornalmente dagli istituti di salute pubblica di tutto il mondo segnavano 1.500.017.337 dosi. Il progresso, al momento, è di 25 milioni di dosi al giorno, un passo sempre più spedito se si pensa che al giro di boa di 500 milioni di dosi iniettate nel mondo si era arrivati in 4 mesi.

E ovviamente, come sopra anticipato la distribuzione non è omogenea. Ben il 60% delle dosi distribuite finora sono state iniettate in 3 Paesi: in Cina 421,9 milioni, negli Stati Uniti 274,4 milioni, e in India 184,4 milioni.

Una sproporzione che è collegata alla popolazione, ma anche alla «nazionalità» delle formule: la Cina ne ha battezzate ben due, Sinopharm e Sinovac, americana (in partnership con la tedesca BioNTech) è la formula Pfizer e in India, oltre al meno diffuso Covaxin, gli stabilimenti di aziende farmaceutiche come Bharat Biotech sfornano anche il 60% delle dosi mondiali complessive, soprattutto della formula anglo-svedese AstraZeneca.

Il dato più significativo inoltre non sono le dosi somministrate in assoluto da ciascun Paese ma la percentuale della popolazione che ha ricevuto almeno la prima, è in base a questa cifra – che in Italia è del 32,4% – che in quasi ogni Paese vengono decise le misure di salute pubblica e le eventuali riaperture.

Eppure, un’occhiata ai dati basta a mostrare che la percentuale di vaccinati, in sé, non è un salvacondotto per il ritorno alla vita normale, due Paesi tra i meglio piazzati in classifica, l’Ungheria dove il 48,2% dei cittadini ha ricevuto almeno una dose, e le Seychelles dove l’ha ricevuta il 68,5%, hanno comunque ancora problemi a contenere la pandemia.

L’Ungheria di Orbàn, che pure è ricorsa ai vaccini russo e cinese senza attendere l’ok dell’Ema, è ora alla fine di una stremante terza ondata che la vede prima al mondo per mortalità, con 3 morti ogni mille abitanti, nell’ultima settimana. E alle Seychelles il 33% dei vaccinati ha preso il Covid in questo momento, ma senza le complicazioni che in un Paese insulare e non ricco come quello sarebbero mortali.

La via fuori dal tunnel sembra dunque un binario parallelo di vaccinazioni e restrizioni preventive. Finché almeno nel mondo non ci saranno abbastanza vaccinati, il problema è stabilire quando è “abbastanza”.

Non esistono stime corrette e spiegarlo è un’inchiesta dell’Economist di inizio maggio, su una possibile immunità di gregge globale. Sono troppe le variabili in campo, dalla resistenza a vaccinarsi ancora molto diffusa. In Romania ad esempio la campagna, avviata bene, è stata praticamente fermata dal diffondersi di teorie del complotto.

A creare svantaggio ci sono anche situazioni di disomogeneità della diffusione del vaccino, che fa sì ad esempio che accanto a Paesi la cui popolazione è immunizzata quasi per intero vi siano «Paesi-focolaio» dove il contagio continua. Undici Paesi, ad esempio, sono ancora a zero dosi somministrate: Tanzania, Burkina Faso, Ciad, Burundi, Repubblica Centrafricana, Eritrea; Vanuatu e Kiribati in Oceania; Haiti e infine la Corea del Nord.

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